Provvedimento di acquisizione sanante e cessazione della illegalità amministrativa: effetti processuali sui giudizi risarcitori

Con la recente pronuncia n. 1087 del 20.2.2020, la seconda sezione del Consiglio di Stato, presieduta dal dott. Gianpiero Cirillo, richiamandosi ai principi enunciati dall’Adunanza Plenaria con la sentenza n. 4/2020, ha ribadito che il provvedimento di acquisizione sanante adottato ai sensi dell’art. 42 bis del T.U. n. 327/01, rappresenta “l’unico rimedio formale per far cessare lo stato di illiceità preesistente, alternativo alla restituzione del bene previa rimessione in pristino e, nel contempo, costituisce l’unico strumento per attuare il trasferimento della proprietà in capo ad essa del bene utilizzato per scopi di pubblica utilità, dovendosi escludere, a tali fini, qualsiasi rilevanza della c.d. rinuncia abdicativa da parte del privato implicitamente riconducibile alla proposizione di una domanda risarcitoria.

In siffatto contesto, è interessante notare come il Supremo Collegio abbia quindi coerentemente affermato che  “ l’adozione, da parte della P.A., di un provvedimento di acquisizione sanante ai sensi dell’art. 42 bis, d.P.R. n. 327 del 2001, determina l’improcedibilità delle domande di restituzione e di risarcimento del danno proposte in relazione ad esse, salva la formazione del giudicato non solo sul diritto del privato alla restituzione del bene, ma anche sulla illiceità del comportamento della P.A. e sul conseguente diritto del primo al risarcimento del danno”.

Nella fattispecie in esame, essendo stato adottato il provvedimento di acquisizione dopo il giudizio di primo grado concluso con la sentenza impugnata ed a seguito dei suoi esiti, il Consiglio di Stato ha rilevato che il suddetto provvedimento vada ad “impattare sulla procedibilità dell’appello, piuttosto che su quella del giudizio di primo grado, i cui ricordati effetti conformativi necessitano di essere salvaguardati, pur con le precisazioni fornite”. Ciò poiché “è dall’affermata natura illecita e perdurante occupazione in essere che è scaturito il decreto di acquisizione che ne ha interrotto gli effetti, traslando la proprietà al Comune appellante”.

Facendo applicazione degli esposti principi la Sezione ha perciò dichiarato improcedibile l’appello proposto per sopravvenuta carenza di interesse (dovendo le contestate pretese risarcitorie ritenersi invero superate ed interamente assorbite nel decreto di acquisizione sanante ex art. 42 bis del d.P.R. n. 327 del 2001 che ha “regolarizzato” la posizione dell’amministrazione e determinato lo spostamento delle questioni inerenti al dovuto indennizzo e/o risarcimento del danno) ed ha così confermato la sentenza impugnata “nei sensi e nei limiti di cui in motivazione”; non senza tuttavia ricordare, in adesione all’ormai pacifico orientamento della giurisprudenza nomofilattica, come “una volta individuato nel provvedimento di cui all’art. 42 bis TUes il segmento terminale della procedura espropriativa, le controversie concernenti non la legittimità dell’atto ex se, ma gli importi in esso contenuti (ivi compreso l’interesse del cinque per cento annuo sul valore venale dell’immobile, menzionato al comma 3 dell’art. 42 bis che ne prevede il pagamento “a titolo risarcitorio”, giacché si tratta di «una voce del complessivo indennizzo per il pregiudizio patrimoniale previsto dal comma 1, n.d.r.)  appartengono alla giurisdizione del giudice ordinario ai sensi dell’art. 53, comma 2, del d.P.R. n. 327/2001 e dell’art. 133, comma 1, lett. g), ultimo periodo, c.p.a. (cfr. ex multis, Cass., SS.UU., 21 febbraio 2019, n. 5201) e risultano devolute alla Corte d’appello, in unico grado, secondo la regola generale dell’ordinamento di settore per la determinazione giudiziale delle indennità desumibile dalla interpretazione estensiva dell’art. 29 d.lgs. 150/2011, «il quale non avrebbe potuto fare espresso riferimento a un istituto introdotto nell’ordinamento solo in epoca successiva» (Cass., SS.UU., 8 novembre 2018, n. 28572)”.

 

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